Anche se nel mondo occidentale potrebbe sembrare che seri problemi di povertà non siano presenti, sono in realtà numerose le nazioni in cui vi è un’enorme differenza tra cittadini ricchi e cittadini poveri: nel nostro Paese, ad esempio, l’ISTAT evidenzia come, nel 2022, circa 5,6 milioni di italiani siano privi di beni ritenuti fondamentali. Questo avviene a fronte di un aumento della ricchezza che, nel mondo intero, riguarda poche persone. A prescindere dal fatto che ricchezza e povertà vengano misurate solo rispetto ai beni materiali, non tenendo conto di altri indicatori come l’alfabetizzazione o la durata della vita, bisogna tener presente come si raggiungano ricchezza e povertà. Diversamente si rischia di considerare ricchi e poveri in termini di mera contrapposizione.
È abbastanza condivisibile che i ricchi non debbano abusare delle proprie risorse: ad esempio il pagamento delle imposte dirette da parte di chi è molto facoltoso è sempre fonte di polemiche. Spesso si distingue l’evasione fiscale, vietata, dall’elusione fiscale, tollerata ma moralmente riprovevole. Spendere il proprio denaro per studiare come pagare il meno possibile di imposte è un’attività lecita: svolgerla o meno rappresenta un problema di tipo morale, non legale.
I poveri, d’altra parte, non hanno alcuna colpa nell’essere poveri, ma nemmeno meriti: come insegnano le accese polemiche sul reddito di cittadinanza non è criticabile l’aiuto dello Stato verso i più bisognosi, ma il fatto che questi non si adoperino per trovare una soluzione alle loro difficoltà.
Ciò che accomuna ricchi e poveri, dal punto di vista di questi due esempi, è l’essere chiamati entrambi ad assumersi responsabilità di tipo morale e non giuridico. In altre parole, non è sufficiente il rispetto della legge (non evadere le tasse, non percepire il reddito di cittadinanza senza i requisiti) quando occorre un atteggiamento di maggiore impegno.
La responsabilità assume un valore superiore alla legalità, perché non può essere imposta a forza di norme, richiedendo un’adesione da parte del singolo cittadino. Spesso si fraintende il valore delle norme giuridiche quando sono usate per imporre qualcosa che riguarderebbe la sfera della moralità.
Forse gli economisti non possono fare a meno di definire la povertà attraverso forme di misurazione che coinvolgano beni materiali. Ritenere che il numero di automobili o di smartphone in circolazione rappresenti in maniera esauriente il grado di povertà o di ricchezza di una nazione è quantomeno riduttivo, o approssimativo.
La mancanza di senso di responsabilità che accomuna i ricchi e i poveri in certe situazioni suggerisce che esista un bisogno diffuso che si può definire “povertà di giudizio”.
L’incapacità di prendere decisioni che non siano guidate da norme giuridiche, ma da senso di responsabilità verso la comunità di cui si fa parte, a prescindere dalle conseguenze legali, fa pensare che né tra i ricchi né tra i poveri ci sia sufficiente consapevolezza.
La povertà di giudizio forse non è che una forma di povertà culturale. Per combatterla occorrerebbe allora investire in tutto ciò che aiuta il cittadino a sviluppare un senso critico autonomo, ad esempio la scuola (con programmi di studio aggiornati e maggiore libertà di metodo). Anche gli adulti però avrebbero bisogno di un ambiente culturale più ricco, di periodici che tornino ad elaborare idee e non a seguire il gossip o di partiti politici che non siano solo cordate elettorali, ma luoghi di elaborazione di nuove proposte.
Viviamo in un’epoca in cui la conoscenza sembra essere il nuovo motore dell’economia, a giudicare da quanto si legge sui giornali. Se questo è vero, sino a quando non si troverà il modo di combattere la povertà culturale, quella materiale non potrà mai essere debellata e la ricchezza di pochi continuerà a determinare disuguaglianze schiaccianti, in Italia come in tutto il mondo.