Black & Olive

Interrogata del perché non voglia fare figli, una piccola, ma significativa parte della popolazione italiana risponderà che non vuole mettere un altro essere umano al mondo. Le angherie della vita del singolo sono infatti divenute tanto opprimenti che a malapena riusciamo a ricavarci una stanza per noi di mezzo al trambusto, figuriamoci anche per un altro essere vivente.

Si dirà che i dati Istat non mentono; che, intervistati sulla soddisfazione che provano, gli italiani si sono dichiarati molto o abbastanza soddisfatti per il 68,1%; che godiamo di comodità quotidiane che anche solo un secolo fa ci saremmo sognati, un sistema sanitario funzionante e pubblico, dei diritti garantiti anche solo nella loro forma più basilare.

Abbiamo insomma una voce in testa che sottolinea della felicità quello che ne ha detto Verri ne “Il Caffè”: l’oggettiva realtà che “i mezzi per sottrarci all’infelicità si stanno moltiplicando, e che gli antenati nostri vissero a peggiori condizioni che non viviamo noi”; senonché c’è una tendenza a comparare sempre e comunque, a ogni critica alle nostre condizioni, le democrazie occidentali del 2024 prima agli stati del Terzo Mondo e alle autocrazie del 2024, e poi al passato, virulento e superstizioso: come Robinson Crusoe che, anche dopo il naufragio, si risolleva spiritualmente pensando alle morti dei suoi compagni e a cosa sarebbe potuto andare peggio.

Ma l’esistenza di realtà peggiori alla nostra non dovrebbe frenare i nostri lamenti: così come c’è sempre stato qualcuno che vive peggio di noi, c’è anche qualcuno che vive meglio. Insabbiare i piccoli abusi e sacrifici cui i nostri fragili cuori occidentali sono costretti è comunque legittimo. Disconoscere le nostre sofferenze funzionerà solo per poco.

Le nostre società sono ora le più complesse mai state; la nostra stanchezza, e non infelicità, la nostra aridità, e non pena, derivano tutte da una commistione di fattori sociali, culturali ed economici, di politica estera, educativi e familiari. Andare a setacciarli tutti e categorizzarli, così in due righe, è compito di un Aristotele e sarebbe presuntuoso a dir poco. Ma noi non possiamo che constatare, sebbene le singoli esperienze non siano nulla rispetto ai dati, che gli individui nelle nostre vite sono, se non ormai incrucciati per un cinismo e un senso come di doomerismo, almeno tutti molto stanchi. 

I nostri giovani brandiscono spade per battaglie che sanno di non vincere, per cui pure si sgolano; sanno che ci aspetta o una lunga vita da colletto blu roso dalle corvée, che abita cantieri angusti e da cui potrà non ritornare a casa un giorno, o una vita altrettanto incerta da colletto bianco, una vita di precariato puro per gli scrittori come per i fisici, per gli insegnanti come per i medici. Sanno che troveranno di fronte sempre una pluralità di superiori, ma che la maggior parte di loro non esiteranno a ritardare la paga legittima, a organizzare stage non retribuiti, a elargire loro posti non fissi, in un caleidoscopio di professioni che ogni giorno cangia e rovina vita a metà degli italiani; sanno che i nostri governi, più desiderabili di altri totalitarismi (che vengono evocati a mo’ di spauracchio come il maiale Palla di neve), non sono poi democrazie immacolate; sanno, i nostri giovani, che i nostri sono gli stessi governi che finanziano guerre e condonano l’evasione fiscale, la corruzione, l’apologia di fascismo e la mafia.

Io parlo dei giovani perché è la classe che governerà il Paese negli anni a venire; se questa è la nostra educazione civica, amara PTSD marchierà gli anni futuri, se altri traumi non sopraggiungeranno da dietro l’angolo; parlo di noi perché siamo gli unici che possiamo invertire il trend della dissatisfaction, gli unici a poter salvare il pianeta e la nostra umanità insieme.

E perché poi dovremmo pensare di essere i più felici mai stati, e che l’umanità in qualche modo stia procedendo seguendo una crescita progressiva? La qualità della medicina, del progresso tecnologico e della ricerca non comportano necessariamente una maggiore felicità; la nostra cultura è atrofizzata, i social media e quella stessa tecnologia idolo dei futuristi ci fa da polmone d’acciaio, ci spia, ci manipola; e quanto può rallegrarci il fatto che moriamo più tardi, se nel vivere non lasciamo vestigia ma rifiuti?

Vivere meglio di ieri è un assunto non condiviso da tutti; ed è bene che sia così! Anche se impossibile, anelare a un tempo diverso, quello degli Uroni e degli Irochesi, quello di Titiro che in pace col mondo si stende e suona il suo canto silvestre può essere ancora un ideale cui aspirare.

 

Le speranze si stanno spegnendo in ogni ambito della vita dell’uomo: questo è lo scenario in Occidente, la presunta apoteosi dell’umanità (ma anche questo è giudizio solo nostro). La denatalità imperversa, i matusa ci gravano addosso; ci stiamo stancando di questa società dei consumi, di quest’economia lineare che ci ha lasciato ciechi e insoddisfatti, che ha stuprato la terra; la politica non è restata niente più che uno sforzo sovrumano contro i dibattiti da stadio, la diplomazia farraginosa e i patti contratti dai primi ministri. Molti di noi stanno unendo i puntini e hanno compreso che i vari conflitti scoppiati più o meno recentemente non sono episodi qualsiasi, ma che va persino stagliandosi il profilo di una terza guerra mondiale a pezzetti, mentre gli Europei hanno deposto le parole di pace e investito negli armamenti.

Non abbiamo dunque che due strade dinanzi: abbandonarsi al vortice, a tutto questo mondo venendone inghiottiti; e rivoluzione: rivoluzione climatica davanti ai ghiacciai disciolti, rivoluzione pacifista davanti ai massacri perpetrati, rivoluzione sociale davanti all’usura di un sistema che affonda, rivoluzione culturale davanti all’atrofizzazione e ai populismi.

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