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“La felicità non è fare tutto ciò che si vuole, ma volere tutto ciò che si ha”

Nietzsche ci suggerisce la sua chiave per essere felici in questo breve aforisma e così abbiamo finalmente ottenuto il mezzo che ci permette di concludere questa nostra ricerca infinita; non ci serviranno più altri consigli né aforismi, perché siamo finalmente felici.

Nulla poteva essere così facile da risolvere.

La nostra letteratura è già satura di massime circa il significato di felicità e il modo in cui grandi nomi del passato l’hanno conquistata, e allo stesso modo noi ne abbiamo ascoltate così tante da aver perso la direzione della ricerca. Cosa rappresentano più queste frasi nel nostro mondo? È possibile che l’unico scopo che è rimasto loro sia quello di illuderci piuttosto che di condurci verso la felicità?

Queste frasi non sono capaci di portare felicità dove viviamo oggi, e chissà se lo sono state ieri; ciò che veramente fanno adesso è dirci cosa provavano le persone che si sentivano felici ai loro tempi. Tutti sono solo capaci di lasciarci i residui della loro felicità senza spiegarci invece come si possa raggiungerla. Per questo è probabile che non l’avessero veramente capito, ma piuttosto custodissero con orgoglio la convinzione di aver decifrato il mistero dell’essere felici.

Ad oggi ci è difficile conquistare la vera felicità, forse è addirittura impossibile. E di certo non per ragioni contingenti quanto invece per un’ambigua condizione umana. Perciò è nostro dovere smettere di puntare il dito contro tutto ciò che accade intorno al mondo: questi eventi incarnano soltanto un difetto minore.

Ciò che ci rende ciechi di fronte alla strada per la felicità è esattamente una delle cose che ci definisce essere umani: è l’imperfezione. Ciò che ricerchiamo col nome di felicità è la sensazione di continuo. Sembra che questo non ci lasci pace e non ci permetta di rifletterci su, come prosciugati da un desiderio insaziabile di felicità. Perciò con questo termine noi definiamo l’irraggiungibile: qualcosa di idilliaco, immaginario, una sensazione immortale che può esistere soltanto nei nostri pensieri.

Proprio perché siamo umani siamo capaci di immaginarla senza darle una definizione precisa, abbandonandoci però nell’illusione della perfezione. Bene, non è necessario dire che la perfezione non esiste, tuttavia è solo a causa sua se rincorriamo ciechi un ideale inconsistente.

L’ideale di felicità è proprio il primo ostacolo verso il suo raggiungimento.

Superato questo però non si può sperare di conquistare la felicità, e la ragione risiede nuovamente nella definizione di chi siamo. Il secondo ostacolo è l’incertezza.

Noi esseri umani siamo creature scaltre e intelligenti ma sempre fallimentari: non possiamo essere in grado di possedere la certezza né una sua minima parvenza; infatti o la possiedi o ne sei totalmente sprovvisto, e noi non possiamo possederla. Questa incertezza ci porta all’ambiguità e al disagio, che a loro volta ostacolano il nostro raggiungimento della felicità. Cioè, come possiamo sapere davvero di essere felici se è scritto nella nostra esistenza che non possiamo avere certezze?

Ciò che invece siamo capaci di raggiungere è la sensazione di felicità, differente perché può esistere sia nei momenti di felicità che di apatia, e talvolta anche insieme a disagio e sconforto. Ma questo significa vivere un’illusione. Se dunque la felicità eterna è irraggiungibile e la certezza di essere felici lo è altrettanto, tanto vale il solo sentirsi felici, con leggerezza e innocenza.

 

 Nel nostro mondo conta di più sentirsi in un determinato modo piuttosto che esserlo: ci capita di pensare di essere avvolti in una certa atmosfera, di provare una data emozione, ma è solo ciò che noi vediamo e spesso non coincide con ciò che siamo o con ciò che proviamo. Di certo questa attitudine non la dobbiamo ad alcun tiranno, ma è un’ironica condizione che per caso ci contraddistingue.

Infatti sono molti i modi di vivere questa condizione, ma tre sono i principali: esiste chi trova conforto nell’illusione di ciò che sente, idolatrando le proprie sensazioni come unico dogma, ultima certezza che conferisce solidità alla loro realtà fino a che tra una felicità ideale ed una strenua convinzione non si riconosce più alcuna differenza. Esiste poi chi questa fiducia non la trova e vive nello sconforto la propria disillusione, costruendo un mondo dove la felicità è irraggiungibile e dove non avere certezze e avere la convinzione di non poter raggiungere la vera felicità sono la medesima cosa. Infine esiste la peggiore delle situazioni, ovvero quella dell’ambiguità: nel momento in cui una tiepida sensazione di felicità è accompagnata dalla consapevolezza di non poter avere certezze, ogni nostra percezione abbandona il suo valore e lascia il dubbio, l’ambiguità; questo non porta sempre alla malinconia ma ad una situazione di stallo, di vera incertezza tra cosa provare e cosa fare. Questo significa vedersi costantemente felici a metà e tristi pure. Tutte sono situazioni di stabilità che si concludono quotidianamente con un “In fin dei conti, va tutto bene”. E per quanto anche quest’ultima sia una condizione stabile, al pari delle prime due, non è possibile immaginare che si avvicini ad uno dei due estremi. Quando Holden erra per New York odia le persone in generale e insieme a ciò prova un forte dolore, ma non osa chiedere aiuto perché non pensa che il suo dolore sia importante. Questo è il contrappasso dell’ambiguità d’animo.

È per la diffusione di questi atteggiamenti che non sono sorpreso che una metà del nostro mondo sia insoddisfatta. È normale che sia così: ancora molto diffuso l’ideale di felicità, noi non siamo in grado di saziarci dei momentanei attimi di felicità che abbiamo, e perciò li consideriamo mere consolazioni, ma infine rispondiamo tutti allo stesso modo:”In fin dei conti, va tutto bene”.

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