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Un uomo e suo figlio che attraversano una Terra desolata, sommersa dalla cenere, in direzione dell’oceano e – sperano – della vita. Questa è la trama del libro che sto leggendo in questo periodo, “La strada” di Cormac McCarthy, ambientato in un mondo post-apocalittico verso il quale ci stiamo dirigendo. Fortunatamente, però, stiamo cercando di rimediare ai nostri errori e prevenire quelli futuri, attraverso accordi e piani di azione decisi nelle COP, le Conferenze delle Parti organizzate dalle Nazioni Unite. In particolare, nella COP16 si è parlato di biodiversità, dell’importanza di quest’ultima per le nostre vite e di come preservarla.

Il termine “biodiversità” non è semplice da spiegare, perché racchiude innumerevoli significati al suo interno e, per questo, lo sintetizzerei dicendo che è l’insieme di tutti gli esseri viventi che vivono in equilibrio tra loro creando un ciclo vitale. Questo ciclo è determinato dall’interazione fra i vari elementi, che, per far funzionare il complesso meccanismo al meglio, devono essere sani. Noi, invece, li stiamo contaminando sempre di più con il nostro stile di vita volto al consumismo e all’abbandono di rifiuti. 

Se dovessi spiegare questo concetto a un bambino, probabilmente gli direi che è il “cerchio della vita” promesso a Simba nel “Re leone”. La differenza fra noi e il re leone è che lui era saggio e rispettava la natura e la biodiversità, noi invece siamo irriconoscenti e ce ne approfittiamo fino a distruggerla. 

Negli ultimi anni però c’è stata una presa di coscienza generale, che ha fatto sorgere iniziative come le COP, che a loro volta hanno portato la creazione di movimenti, dei quali l’esempio più eclatante è il “Friday for Future”, che coinvolge un grande numero di persone – soprattutto giovani – nella sensibilizzazione per l’ambiente. Nonostante ciò, c’è ancora molta incoerenza e ipocrisia sull’argomento, perciò è ancora attuale un’affermazione di Servern Cullis-Suzuki, che proprio alla COP1 tenutasi nel 1992, soltanto dodicenne, disse che “siamo quello che facciamo e non quello che diciamo”. 

Parlando di fatti, attualmente sono in atto l’iniziativa 30*30, che prevede di salvaguardare il 30% dei mari e il 30% delle terre entro il 2030, e la “Sfida gemella”, che connette la tutela della biodiversità con il dannoso cambiamento climatico: ad esempio, le azioni di deforestazione non solo danneggiano ecosistemi e biomi, ma influiscono anche sulla temperatura globale, che causa poi catastrofi ambientali come quelle che stiamo vedendo in questi giorni a Valencia, che a loro volta producono nuovi danni all’ambiente e alla biodiversità. Questa è solo una delle tante dimostrazioni di come biodiversità e cambiamento climatico siano concatenati e questa correlazione è un’arma a doppio taglio: se emettiamo troppa anidride carbonica peggioriamo la situazione del cambiamento climatico, e di conseguenza della biodiversità, ma se facciamo qualcosa per migliorare la condizione ambientale, anche la biodiversità ne gioverà. 

Detto questo, penso che il miglioramento delle nostre azioni sia solo una soluzione parziale al problema, e comunque troppo difficile da attuare, poiché, nonostante tutta la sensibilizzazione a cui siamo sottoposti, siamo troppo pigri ed egoisti per cambiare le nostre abitudini e poche persone lo fanno realmente. Per questo spero in un’innovazione scientifica e tecnologica che sradichi in modo forzato questi comportamenti dannosi dai quali non riusciamo – o non vogliamo – svincolarci. Alcune rivoluzioni riguardano la produzione di energia in ambito domestico, con pannelli solari, mini pale eoliche e i nuovi mini reattori nucleari casalinghi. Ma guardare avanti non è sempre la soluzione: in alcuni casi, per me, bisognerebbe “tornare indietro” alle realtà di quartiere, a quando, se si rompeva una scarpa, anzichè buttare il paio e comprarne uno nuovo della stessa scarsa manifattura, si facevano riparare dal calzolaio per rispettare un oggetto e dargli nuova vita e, involontariamente, praticare economia circolare.  

 

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