Vietare i social network ai minori può sembrare una scelta protettiva, ma rischia di essere solo una scorciatoia politica. I social non spariscono con una leggere: vengono aggirati, nascosti, spostati altrove spesso in spazi ancora meno sicuri.
C’è poi un nodo culturale. Vietare i social significa implicitamente rinunciare all’educazione digitale, come se la complessità del mondo online fosse qualcosa da cui tenere lontani i giovani invece che da affrontare insieme a loro. Eppure è proprio lì che servirebbero più strumenti critici: imparare a riconoscere contenuti tossici, a gestire il tempo online, a difendere la propria privacy, a distinguere informazione e manipolazione.
Questo non significa negare i rischi reali dei social dall’ansia alla dipendenza, dal cyberbullismo alla disinformazione ma riconoscere che sono problemi sociali, non solo tecnologici. Richiedono responsabilità condivise: delle piattaforme, chiamate a regole più chiare e trasparenti; delle scuole, che devono educare al digitale; delle famiglie, che non possono essere sostituite da una legge.
Vietare può rassicurare l’opinione pubblica, ma non prepara i ragazzi al mondo in cui vivono. E un mondo senza social, semplicemente, non è più il nostro.








