Quarantacinque minuti. I più lunghi di sempre. Dall’entusiasmo degli studenti che hanno potuto saltare l’ultima ora di lezione perché Meet non funzionava più, alla frustrazione di chi, sul posto lavoro, sia virtuale che fisico, provava, invano, a spedire una mail. È caduto Google. Il crollo, seppur momentaneo, del colosso statunitense ha confermato che non sarà di certo Internet a salvare il mondo. È bastato meno di un’ora per farcene rendere conto. Al massimo può aiutarci a raggiungere tale obiettivo, ma non possiamo di certo dipendere solo ed esclusivamente dalla rete. E che ciò accada nel pieno di una pandemia mondiale che persiste quasi da un anno è una coincidenza che invita, inevitabilmente, a riflettere. Quando tutto è iniziato, abbiamo creduto, forse in modo innocente, che la piattaforma di Google fosse solo un motore di ricerca. Un risponditore automatico e istantaneo a qualsiasi nostra domanda. E col passare degli anni, oltre ai nostri dubbi gli abbiamo sempre più affidato le chiavi dei nostri servizi, e cioè della nostra vita. In tal modo il il colosso statunitense si è insinuato nella nostra quotidianità, ma è diventato anche l’infrastruttura virtuale su cui far viaggiare i nostri servizi reali. L’istruzione di noi studenti, con la didattica a distanza, è solo l’ultimo degli esempi citabili. Se si ferma Google, come è successo lunedì, si ferma anche la scuola, perché molte delle lezioni che ogni giorno si svolgono in tutta Italia viaggiano sulla piattaforma Meet, che è direttamente controllata da Google. Il senso di spaesamento postumo al non poter utilizzare applicazioni della nostra quotidianità come youtube, spotify o anche semplicemente google in sé, avrà preso la maggior parte di noi. Ma forse sarà servito anche a riflettere sul perché in maniera così rapida abbiamo delegato molto, o quasi tutto, a questa piattaforma. La risposta più semplice da darci è che la tecnologia ci permette di abbattere costi e tempi, senza però intaccare le prestazioni. Ma gli effetti salvifici della tecnologia, in maniera assoluta, non esistono. E forse non ci saranno mai. La tecnologia può sbagliare tanto quanto lo possono fare gli esseri umani, ed è vulnerabile quanto tanto lo siamo noi. Per questo motivo da ormai due anni l’Unione europea discute un regolamento che vuole rinnovare la disciplina sulla tutela dei dati personali. È nata quindi l’esigenza di una “costituzione” che limiti i poteri che i colossi informatici di tutto il mondo, e in particolare i GAFAM (ossia l’acronimo utilizzato per chiamare le piattaforme più importanti dei nostri giorni quali Google, Apple, Facebook, Amazon e Microsoft), hanno sulla sicurezza dei tre miliardi di utenti che, almeno una volta nella vita, hanno usufruito dei loro servizi.
