È un termine presente sempre più spesso, ormai, in telegiornali e quotidiani, da qualche anno protagonista di cronache sportive: rispetto ad un tempo, infatti, si parla meno di vittorie, successi, nuovi record stabiliti, ma più di inchieste, squalifiche, raggiri. Si tratta del doping, che consiste nell’assunzione di sostanze o medicinali proibiti con lo scopo di aumentare artificialmente il proprio rendimento fisico. Si è insinuato come pratica sleale e pericolosa fin dalle prime Olimpiadi, in Grecia, poiché denaro, proprietà dello Stato devolute, esenzione dal servizio di leva costituivano la posta più ambita dagli atleti, posta, ovviamente, riservata al gradino più alto del podio. Oggi molti giovani credono che l’uso di tali sostanze possa sostituire l’allenamento, ma, in realtà, senza paziente fatica non si ottengono risultati, neanche trasformando l’individuo in una farmacia ambulante: il doping non fa miracoli, non crea dal nulla campioni sportivi, non è altro che una truffa, poiché vincere in questo modo equivale a rubare la vittoria a un atleta leale, a chi si è comportato bene, rispettando le regole. Secondo l’opinione di parecchi, quindi, ricorrere all’uso di tali medicinali è, in primis, una sconfitta personale con il proprio io, che denota profonda debolezza e insicurezza: la foga di indossare alla prima gara la medaglia d’oro, la notorietà, gli sponsor che pagano profumatamente i campioni, solo finché vincono o l’aumento dei carichi di allenamento altrimenti insostenibili sono i principali fattori che portano all’abuso di sostanze dopanti. Alcuni atleti ne muoiono: il primo fu il ciclista Arthur Linton, colpito da una crisi cardiaca in seguito ad overdose di stimolanti nel 1869; successivamente, nonostante le conseguenze evidenti a cui avrebbero potuto portare, nel Novecento, soprattutto nel mondo del ciclismo, era in uso la pratica di preparare e consumare dei veri miscugli composti da associazioni di sostanze diluite nella borraccia dell’acqua. Il caso più recente, in Italia, che ha destato maggior clamore, è stato quello del marciatore altoatesino Alex Schwarzer: risultato positivo nel 2012 ai controlli anti-doping, per difendersi ha coinvolto anche la fidanzata Carolina Kostner, campionessa di pattinaggio sul ghiaccio, che ha negato la presenza di sostanze dopanti nel frigo di casa e, per la sua complicità, è stata poi squalificata dal mondo sportivo per un anno. Dietro la maschera del beneficio possibile, si nasconde il peggior nemico degli atleti, nemico che li imbroglia, facendoli rimanere intrappolati in una strada senza vie di uscita, danneggiando non solo chi fa uso di farmaci o altro ma anche chi sta loro vicino, come in questo ultimo caso. La prevenzione e la conoscenza, quindi, di tale fenomeno, tra gli adolescenti, dovrebbero essere promosse a più livelli, oltre che in ambito familiare, nel contesto scolastico, nelle società sportive di appartenenza: gli aspiranti sportivi vanno educati a rifiutare pillole anche dagli allenatori, perché, talvolta, sono proprio loro i primi a guidare i propri allievi verso questa dipendenza, ingannandoli, con una specie di “lavaggio del cervello”, toccando le loro fragilità, i loro punti deboli e illudendoli di poter toccare, in un attimo, la vetta più alta della classifica.
