Nel XXI secolo le possibilità sono due: o vinci ed emergi finalmente dalla massa o perdi e passi la tua esistenza all’ombra di qualcun altro.
Tutto ciò che non rientra in questo schema non interessa alla società.
Ci si aspetta che tu guadagni miliardi, faccia il botto a Wall Street, passi le tue giornate a tirare di coca su schiene nude di bellissime modelle svedesi, mentre tua moglie accudisce i tuoi splendidi figli biondi e non si lamenta per tutto quell’ andirivieni di ragazzine.
Due anni dopo sei sverso in un vicolo buio con una siringa nel braccio, non sai cosa sia, ma ti ficcheresti di tutto nelle vene pur di cancellare per un momento quel mondo, pur di sentirti di nuovo il re, quello che muoveva i capitali, che metteva in difficoltà le nazioni con le sue scelte.
Ma essere vittorioso, in questo senso, a cosa serve?
La parola “vittoria” non deve essere accompagnata da “felicità”?
La vittoria in una competizione o in qualunque genere di cose materiali è solo un’“invenzione”, un modo alternativo di essere felici; si associa l’idea di vincitore con quella di felice, così che poi chi vince automaticamente si senta felice.
Dunque la vera vittoria, quella più alta, sublime, è la felicità.
L’uomo felice è l’unico vincitore della “vita”, l’unico che, escludendo l’esistenza di un paradiso, abbia raggiunto il traguardo.

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